lunedì 29 luglio 2013

Il bilancio di Gianni Vattimo: "Operazione riuscita"

Il teorico del "pensiero debole" conversa con Santino Cundari su Calabria Ora del 28 luglio 2013. Il placet sulla formula anti-festivaliera della Scuola di Roccella, il Sud, la sua Calabria e l'importanza degli intellettuali. Questi alcuni dei temi discussi davanti a un drink in piazza 



di SANTINO CUNDARI

Si avviano ormai verso la conclusione le quattro giornate di studio organizzate dalla “Scuola di Alta Formazione Filosofica” di Roccella Jonica. Tante e varie sono state le declinazioni che il tema di questa edizione, quello dei “beni comuni”, ha assunto nel corso della fortunata iniziativa. Partendo dall’assunto che tra i “beni” il “pensiero” sia uno dei più preziosi, abbiamo posto alcune domande ad un “professionista” di questo ramo del sapere: il filosofo Gianni Vattimo. La “sua Calabria”, le dinamiche politiche del Sud Italia e i “beni” di una collettività che voglia davvero dirsi tale, i temi maggiormente dibattuti dal teorico del «pensiero debole».

Negli ultimi tempi lei si è “tirato fuori” dagli incontri “filosofici e accademici” dichiarandolo anche pubblicamente. La prima domanda che le rivolgiamo è proprio questa: perché ha detto “sì” alla “Scuola di Alta Formazione Filosofica” di Roccella?
«Incontri come questo mi stimolano molto perché nel delirio generale dei festival culturali cominciavo a sentirmi a disagio. In alcune situazioni mi aspettavo quasi di essere interrotto: immaginavo che, durante una relazione su Heidegger, mi si venisse presentato un intermezzo musicale, magari un balletto».

Una deriva estremamente “pop” come quella di Modena che invita Fabio Volo a parlare di filosofia?
«Esatto, mi riferisco a roba del genere. Mentre devo ammettere che iniziative come questa mi danno un po’ di fiducia. Ho sentito relazionare giovani molto interessanti e preparati. Alcune cose me le sono anche annotate. Questa è una buona via e spero che negli anni si mantenga. Sono sempre stato interessato ai tentativi di portare la filosofia fuori dalle “accademie” ma certi esiti sono stati davvero imbarazzanti. Questa operazione in Calabria è riuscita perché oltre agli specialisti del settore ci siamo trovati a discutere con i villeggianti, la gente del luogo e persone molto curiose. Questo si è rivelato un bel modo perché si è evitato di snaturare il discorso filosofico e lo si è comunque reso alla portata di tutti».

C’è qualcosa che in particolare di più l’ha colpita?
«Le domande che mi hanno rivolto le maestre della scuola elementare. Mi hanno provocato molto. Volevano capire come spiegare il valore del discorso culturale ai bambini. Giustamente si chiedono come la filosofia possa divenire un contatto educativo privilegiato per il metodo d’insegnamento. Per loro la filosofia non è una materia curriculare ma si può attingere dai suoi metodi anche per insegnare altro. Questo, oggi, è un discorso che si è completamente annichilito. Invece andrebbe seriamente ripreso. È come la crisi del clero: se anche i preti iniziano a non crederci più noi che facciamo? Bisognerebbe investire tanto sulla formazione degli insegnanti. Loro sono il tessuto intellettuale del Paese, la crescita e la ripresa dalla crisi dovrebbe passare prima di tutto dal loro lavoro».

Torniamo al suo legame con la Calabria: di recente è stato scritto un saggio su questo (pubblicato in “Storia del pensiero filosofico in Calabria: da Pitagora ai giorni nostri” per Rubbettino e curato da Mario Alcaro ndr), lei viene tirato in mezzo solo per le sue origini o anche per una vicinanza di approccio culturale e filosofico?  
«Ho vissuto alcuni anni a Cetraro, il paese di origine di mio padre, e una volta trasferitomi al Nord sono sempre stato etichettato come “terrone”. Questo è un dato di fatto. Ricordo ancora quando arrivavano i pacchi dalla Calabria al Piemonte e ne ero sempre entusiasta. Questo fa parte della mia cultura ed è una qualcosa che non ho mai rinnegato. Non ne ho mai avuto motivo anche se da ragazzino venivo picchiato perché “terrone”. Sul piano filosofico per un po’ di tempo ho coltivato idee vicine a quelle di Esposito. In sintesi, il nostro Paese è diventato tutto un Sud Italia. Rispondiamo ad un Nord europeo. Queste sono dinamiche che dalle nostre parti sono sempre esistite e che oggi si ripresentano su una più vasta scala territoriale e culturale. Questa è una cosa su cui il Nord Italia, nel suo convinto avanguardismo, dovrebbe riflettere e vivere in maniera più critica».

La questione è dunque anche politica. Secondo lei quali sono i limiti delle politiche del Sud e della Calabria in particolare?
«Una politica che non investe su l’intelligentia del proprio territorio è una politica fallimentare. Riprenderei qui il discorso proposto in precedenza sul mancato riconoscimento del ruolo degli insegnanti in una società che voglia dirsi tale. Aggiungerei anche i tanti giovani che fanno cultura e che, fra mille difficoltà, rimangono ancora qui nel tentativo di cambiare qualcosa. Trovo una politica assente, importatrice e mai esportatrice della propria intelligentia, che non investe sulle potenzialità che già possiede».

In questi giorni si è parlato di “beni comuni”. Secondo lei da queste parti c’è un bene più urgente degli altri?
«La legalità. Ma questo, a mio parere, è sempre stato un problema nazionale e mai un’esclusività del Sud. Per questo, in generale, si dovrebbe investire su cultura e formazione, fondare magari corporazioni fatte di intellettuali e impegnate per la collettività».  





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