martedì 19 febbraio 2013

Il postmoderno nel "Gergo" di Pisani


«Non intendiamo formulare una critica di tipo moralistico alla società postmoderna, né tantomeno proporre un modello risolutivo, che conduca l’umanità verso una nuova verità e una definitiva giustizia». Il merito del contributo di Giacomo Pisani sta, infatti, in una fenomenologia dell’epoca postfordista, restituita al lettore con parole riconducibili al lessico heideggeriano.
Il mondo a capitalismo avanzato, quello tipico delle città metropolitane, è popolato da soggettività sradicate, inautentiche, «non genuine» (dall’aggettivo tedesco ‘echt’), donne e uomini dediti alla chiacchiera, alla curiosità, imbrigliati negli equivoci della vita quotidiana. Sono queste le voci chiave de Il gergo della postmodernità (Unicolpi 2012, con prefazione di Augusto Illuminati) secondo il ventenne studioso di Bari, gradito ospite della nostra Scuola durante gli ultimi due anni.

Pisani individua il deperimento della presenza, per dirla con De Martino, o dell’esserci, per restare all’autore di fiducia del libro, nei mutamenti del sistema di produzione che hanno progressivamente indebolito l’istituto del lavoro salariato. Tradotto: incrinandosi il meccanismo socio-economico centrato sul lavoro, si rompono le abitudini di vita che hanno accompagnato l’intera modernità. Nello specifico, stando alla ricognizione operata dalla ricerca di Giacomo, si rompe il «rapporto autentico col mondo». Da qui, dunque, l’umanità superficiale e liquida che si rende protagonista delle generiche giornate metropolitane, a «bighellonare» nei lounge bar o nei centri commerciali in virtù di una dose di tempo libero (dal lavoro) di cui si dispone. Il ragionamento complessivo messo a punto nel Gergo è condivisibile, ma con un limite. E cioè che non cada nella nostalgia di un passato perduto, felice, sensato e autentico. L’impressione è che all’autore capita di pensarci, certe volte, ma si trattiene e torna sul binario dell’analisi fenomenologica. Altrimenti, quale dovrebbe essere questo paradiso remoto? La domanda è rischiosa perché ammette una risposta tale da stimolare un senso di empatia per un’epoca trascorsa che, detto nei termini del Benjamin delle Tesi sul concetto di storia, significa salire sul carro dei vincitori, senza mai riaprire i conti col passato e scorgervi chance rivoluzionarie. Ma questo semmai è un altro racconto. Tornando a Pisani, il pericolo della domanda è schivato e resta la buona e utile mappa heideggeriana del postmoderno. ‘Postmodernità’, appunto, che tuttavia, nel gioco delle etichette, sembra meno opportuna di ‘postfordismo’ nella misura in cui il secondo termine coglie un passaggio del tutto materiale, quindi più reale, di un fenomeno storico di cui il primo lemma, cogliendone invece un aspetto atmosferico, di moda del pensiero, rappresenta solamente un effetto.

Angelo Nizza

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