«Non intendiamo
formulare una critica di tipo moralistico alla società postmoderna, né tantomeno
proporre un modello risolutivo, che conduca l’umanità verso una nuova verità e
una definitiva giustizia». Il merito del contributo di Giacomo Pisani sta,
infatti, in una fenomenologia dell’epoca postfordista, restituita al lettore
con parole riconducibili al lessico heideggeriano.
Il mondo a capitalismo
avanzato, quello tipico delle città metropolitane, è popolato da soggettività
sradicate, inautentiche, «non genuine» (dall’aggettivo tedesco ‘echt’), donne e
uomini dediti alla chiacchiera, alla curiosità, imbrigliati negli equivoci
della vita quotidiana. Sono queste le voci chiave de Il gergo della postmodernità (Unicolpi 2012, con prefazione di Augusto Illuminati) secondo il ventenne studioso di Bari, gradito
ospite della nostra Scuola durante gli ultimi due anni.
Pisani individua il
deperimento della presenza, per dirla
con De Martino, o dell’esserci, per
restare all’autore di fiducia del libro, nei mutamenti del sistema di
produzione che hanno progressivamente indebolito l’istituto del lavoro
salariato. Tradotto: incrinandosi il meccanismo socio-economico centrato sul
lavoro, si rompono le abitudini di vita che hanno accompagnato l’intera
modernità. Nello specifico, stando alla ricognizione operata dalla ricerca di
Giacomo, si rompe il «rapporto autentico col mondo». Da qui, dunque, l’umanità
superficiale e liquida che si rende protagonista delle generiche giornate
metropolitane, a «bighellonare» nei lounge bar o nei centri commerciali in
virtù di una dose di tempo libero (dal lavoro) di cui si dispone. Il ragionamento
complessivo messo a punto nel Gergo è
condivisibile, ma con un limite. E cioè che non cada nella nostalgia di un
passato perduto, felice, sensato e autentico. L’impressione è che all’autore
capita di pensarci, certe volte, ma si trattiene e torna sul binario dell’analisi
fenomenologica. Altrimenti, quale dovrebbe essere questo paradiso remoto? La
domanda è rischiosa perché ammette una risposta tale da stimolare un senso di
empatia per un’epoca trascorsa che, detto nei termini del Benjamin delle Tesi sul concetto di storia, significa
salire sul carro dei vincitori, senza mai riaprire i conti col passato e
scorgervi chance rivoluzionarie. Ma questo semmai è un altro racconto. Tornando
a Pisani, il pericolo della domanda è schivato e resta la buona e utile mappa
heideggeriana del postmoderno. ‘Postmodernità’, appunto, che tuttavia, nel
gioco delle etichette, sembra meno opportuna di ‘postfordismo’ nella misura in
cui il secondo termine coglie un passaggio del tutto materiale, quindi più
reale, di un fenomeno storico di cui il primo lemma, cogliendone invece un aspetto
atmosferico, di moda del pensiero, rappresenta solamente un effetto.
Angelo Nizza