Il taglio dello studio condotto da Ermanno Vitale
sta per intero nel sottotitolo al volume Contro
i beni comuni (Laterza, Roma-Bari, 2013).
Quella del filosofo politico dell’Università di Aosta non è una mossa per
ripudiare le teorie sostenute dai paladini dei commons ma si tratta piuttosto di una critica illuminista
che replica al Manifesto dei beni
comuni di Ugo Mattei (Laterza, Roma-Bari, 2011). Critica nel senso kantiano del
termine, cioè un’analisi che mira a mettere in chiaro i limiti di un concetto,
di un argomento, di una dottrina. Sotto la lente di Vitale finisce così quel
filone di pensiero che viene indicato con l’etichetta non certo celebrativa di benecomunismo. Nel prosieguo di questo
post, proverò a restituire il contraddittorio che l’autore-contro ingaggia con il collega giurista: l’obiettivo non sarà
certamente quello di far da arbitro e men che mai da paciere, bensì di
alimentare il fuoco del dibattito su un tema di scottante attualità.
Vado subito al dato che mi pare essere quello di
maggiore rilievo. Il cuore della critica di Vitale a Mattei consiste
nell’opporre il costituzionalismo del privato
al costituzionalismo del comune. Si
badi che non è in palio la preferenza del primo termine sul secondo, ma è la
strategia di difesa dei beni comuni che è diversa. Mentre Mattei punta alla
«declinazione del comune come categoria del politico e del giuridico», Vitale,
rileggendo Luigi Ferrajoli, risponde che occorre «giungere a un
costituzionalismo di diritto privato che ponga limiti all’iniziativa
imprenditoriale e alla mercificazione del mondo originata dalla sacralità della
proprietà privata». Entrambi rifiutano il carattere quasi divino del privato e,
dunque, rompono con il paradigma neoliberista improntato alla crescita e alla
messa a valore delle risorse materiali e immateriali che il mondo offre.
Tuttavia, vi è una sostanziale differenza fra i due. Mattei opera direttamente
sul comune, dandolo come elemento già acquisito o al massimo da recuperare
ma comunque di per sé costituito, relativo a un’organizzazione ecologica e
sostenibile della società, in coerenza con lo spirito dell’intelligenza
generale e della cooperazione intersoggettiva. Il comune di Mattei è un aspetto invariabile della nostra forma di
vita che è stato adulterato dalla storia e che reclama di essere emancipato dal
giogo dell’individualismo capitalista. Dal canto suo, Vitale ritiene che una
simile posizione sia fin troppo generalista e finisca per dire troppo o troppo
poco. Le sue tesi contro mettono nel
mirino l’oltremodernismo di Mattei (che la vita comunitaria dei monaci e dei
villaggi medioevali ritenuta più a misura d’uomo rispetto all’esperienza
offerta dall’epoca contemporanea) e rilancia ricordando non solo le difficoltà
di sostentamento patite dagli uomini dell’età di mezzo, ma soprattutto
considerando il comune come l’esito
di un procedimento politico e giuridico, piuttosto che come il suo antefatto.
Secondo Vitale, quindi, i beni comuni devono e possono essere tutelati se lo
Stato adempie a specifici provvedimenti finalizzati a limitare l’economia,
proponendo sia «garanzie del mercato»,
sia «garanzie dal mercato».
Oltre
questo passaggio che, ripeto, mi sembra ospitare il nodo polemico più
consistente, la contesa prosegue e, in particolare, Vitale impugna la visione
olistica del benecomunismo secondo
cui tante cose, troppe, sarebbero da collocare nel novero dei beni comuni,
rischiando però di identificare il tutto col nulla. Mi spiego. In Mattei, è
bene comune ovviamente l’acqua, ma in generale è bene comune tutto ciò che
risiede oltre il pubblico (lo Stato) e il privato (il capitale) o che, in
coerenza con la sua originaria natura, va strappato a questo sistema binario.
Dunque, è bene comune il lavoro, l’università, i saperi, internet. E poi anche
la sfera ecologica, umana e non umana, campi, prati, fiumi, mari, laghi,
animali. Vitale non accetta questa tassonomia, la ritiene confusa e fuorviante,
e risponde rimarcando, alla Rodotà, la corrispondenza fra i beni comuni e i
diritti fondamentali del nostro mondo e, quindi, il suo elenco comprende il
software libero, il no al copyright, l’acqua, il cibo, i farmaci, internet.
Insomma, la narrazione di Vitale capovolge quella
di Mattei, a partire dai ruoli assegnati a Garrett Hardin ed Elinor Ostrom
(biologo il primo e premio Nobel per l’economia la seconda, letti in maniera
antitetica, una volta come l’orco contro la fata e poi sempre secondo lo stesso
schema ma in direzione contraria), continuando poi con la presa di distanza dal
peso socio-economico della parola enclosures,
fino alla semantica dei commons e, ancora, all’inversa gestione
dell’iter costituzionale per la loro salvaguardia.
Vi è, infine, un punto di domanda da porre tanto ai
benecomunisti quanto ai contro. La questione concerne il
rapporto fra comune e universale, cioè la relazione fra i beni
comuni e i diritti fondamentali di ogni persona. Il collegamento fa problema
perché, sul piano della rispettiva logica interna, fra i concetti di comune e di universale non vi è corrispondenza, ma opposizione. Perlomeno in
filosofia, se è comune allora non è universale. Il primo riguarda una
relazione senza termini positivi, il secondo, invece, presuppone dei termini
autoconsistenti cui assegnare dei requisiti o delle qualità. Perciò comune è, per esempio, il linguaggio
verbale, la cui condizione di esistenza non dipende necessariamente da questo o
quel parlante o da questa o quella parola, ma dalla cooperazione fra i locutori
e dai nessi fra i segni. Universale è,
invece, la capacità di vedere o di camminare, attributi che per esistere pretendono
l’inevitabile presenza di ogni singolo uomo. Se questa divaricazione
concettuale è valida, allora occorre tenerla in conto quando si tenta di
stabilire un rapporto di linearità fra i beni comuni e i diritti fondamentali:
coi primi che progressivamente tendono a conformarsi all’idea inter-individuale
del comune e con i secondi che
guardano all’individualità generalizzata dell’universale. Occorre tenerne conto non tanto allo scopo di far
divenire velleitario il percorso (la teoria politica dei beni comuni è una
delle idee più promettenti della nostra epoca) ma, al contrario, per metterlo
al riparo da possibili obiezioni, dunque, per irrobustirlo.
Angelo Nizza