«La verità è che non mi sento più a mio agio nei convegni troppo tecnici». Gianni Vattimo, che sarà ospite della Scuola estiva "Giorgio Colli" di Roccella il 24 e il 25 luglio, si confessa ad Antonio Gnoli su La Repubblica del 23 giugno scorso. E dichiara di aver scoperto una certa presa distanza dalla filosofia accademica. Il che non vuol dire che gliene freghi più nulla del pensiero. Anzi...
di ANTONIO GNOLI
Ormai fa coppia fissa con Sancho. Mentre siamo a tavola davanti a un piatto di involtini primavera cucinati dalla domestica filippina — una suora laica, scoprirò più avanti — Sancho scuote pigramente la testa e guarda incuriosito l’intruso, che poi sarei io. «Non è geloso, glielo assicuro», dice Gianni Vattimo, «è solo che gli piace essere al centro dell’attenzione. I gatti sono così: un misto di curiosità, indifferenza e abitudine». La conversazione va avanti già da un po’. Prima nella penombra del salotto. Poi qui nella stanza dove ceniamo, ricompresa nel vasto appartamento torinese. C’è un poster colore rosso acido che attira la mia attenzione: ritrae Vattimo, sotto una frase di Keynes: «La repubblica dei miei sogni si colloca all’estrema sinistra della volta celeste». «Fu un dono di certi amici per i miei settant’anni», ricorda il professore.
Si sente anche lei all’estrema sinistra di qualcosa?
«Sono affetto da un sinistrismo legato alla mia militanza cattolica. A volte sogno un comunismo ermeneutico la cui verità si realizzi nel dialogo».
Non è più una posizione liberale?
«No, il mondo liberale è stato inghiottito dal liberalismo che ha cancellato ogni forma di verità e di dialogo. Il comunismo al quale io penso non è quello scientifico, con pretese positivistiche. Sono convinto che se Stalin avesse letto qualche pagina sul pensiero debole avrebbe probabilmente ammazzato molta meno gente».
Ho qualche dubbio.
«Lui ha fatto quello che da noi eseguono i governi tecnici: ciò che era necessario, in quel caso, per l’industrializzazione forzata dell’Urss. Bisogna guardarsi da coloro che si appellano all’oggettività delle cose».
Realismo uguale repressione?
«Vanno a braccetto. Forse per questo i governi occidentali a quanto pare acquistano sempre più armi da antiguerriglia urbana».
Era una considerazione alla quale giunse parecchi anni fa Michel Foucault.
«Vedeva l’Occidente sempre più preda dei controlli. Sorvegliare e punire. E non solo nelle cliniche per matti o nelle carceri. Ma nei centri urbani. Si era invaghito della rivoluzione iraniana. Lo conobbi nel 1964, o forse era il ’65, in un’abbazia non lontana da Parigi dove si teneva un convegno su Nietzsche. Era abbastanza scostante, non cercò neppure di sedurmi».
Allude alla sua omosessualità?
«Scherzo, naturalmente. Anche perché allora non si sapeva niente di nessuno. Comunque arrivai fin lì da Heidelberg — dove studiavo con Löwith e Gadamer — mi presentai, con la mia faccia da ragazzino, a Gilles Deleuze, che era l’organizzatore. Mi squadrò sorpreso. Gli sembravo troppo giovane. Volle leggere la relazione prima, non si fidava».
Com’era Deleuze?
«Aveva certi unghioni stranissimi, sembrava un vampiro. Anni dopo ho introdotto in Italia qualche suo libro. Ma le confesso che del suo pensiero ho capito ben poco».
Si creano equivoche leggende.
«Un giorno fui invitato a Seattle a un convegno sull’architettura post-moderna. Un tizio mi introdusse e cominciò a citare i miei libri. Non capivo nulla di cosa stesse dicendo. Mi sembravano delle follie».
È l’ermeneutica quando impazzisce.
«Come la maionese. La filosofia può essere un bel gioco ma non tutti i giochi sono filosofici».
Lei con chi ha studiato filosofia?
«Mi sono laureato con Luigi Pareyson nel 1959. Mi ero allora invaghito di Adorno e dei francofortesi. Pareyson mi disse: “Ma perché vuole studiare questi qui? Si dedichi piuttosto a Nietzsche che è alla base di tutti loro”. Cominciai così. Poi nel 1960 comparve il libro di Heidegger su Nietzsche. Per leggerlo avrei dovuto conoscere il tedesco. E allora mi recai a studiare in Germania ».
Prima della filosofia cosa era accaduto nella sua vita?
«Di rilevante il fatto che avessi lavorato in Rai. Entrai nel 1954 con un concorso. Me ne andai dopo qualche anno su sollecitazione del mio direttore spirituale che considerava l’ambiente televisivo un luogo corrotto».
Il direttore spirituale?
«Monsignor Caramello, grande studioso di San Tommaso. Sosteneva che la mia vocazione era la filosofia. Naturalmente, sperava che diventassi un filosofo cristiano».
E lei l’ha deluso?
«Fino a un certo punto. Come si dice? Santi in chiesa e fanti in taverna».
Crede nell’aldilà?
«Sarebbe un’affermazione azzardata. Credo di più nella speranza di una giustizia divina senza la quale non muoveremmo neanche un dito nella storia. Poi, se l’anima esala e va da qualche parte, non lo so. Non si può spiegare tutto. Le confesso però che la sera, prima di dormire, recito delle parti del breviario. È la compieta ».
È cosa?
«Nella liturgia delle ore è l’ultima preghiera della giornata. È molto bella».
Cosa le trasmette?
«Un senso di tranquillità. Ho cominciato a recitarla quando si ammalò il mio amico Giampiero. Mi faceva stare meglio. In fondo, è come se mi figurassi di quando ero piccolo e avevo più speranze nel futuro. La religione è un’abitudine infantile che ti porti dentro».
Come è stata la sua infanzia?
«Erano gli anni della guerra. Ricordo i fischi delle bombe a Torino in Borgo San Paolo. Distrussero la casa dei miei genitori. Decidemmo di raggiungere alcuni parenti di mio padre in Calabria. Mia madre aveva quarant’anni e si adattò a tutto questo stravolgimento. Restammo lì dal 1942 al 1945. Tornammo a Torino andando incontro alla povertà più assoluta. La mamma si mise a fare la sarta e io l’aiutavo nel sopraggitto: è un punto di cucito nel quale divenni particolarmente abile. In fondo, il mio provvidenzialismo si lega a delle situazioni di assoluta disperazione».
Disperazione anche quando scoprì le sue tendenze sessuali?
«Venivo pur sempre dal mondo cattolico, dove la repressione ha la sua importanza. Dicevo interi rosari con le mani sul pavimento sotto le ginocchia. Un male tremendo e avevo diciotto, forse vent’anni. Quando compresi la natura della mia sessualità mi venne l’ulcera. Mi operarono ed ebbi la fortuna di conoscere un ballerino cubano, con cui sono stato per un paio di mesi».
Fu la rivelazione?
«No, perché in realtà già sapevo. Ma fu la liberazione. Era il 1968. Per lungo tempo degli orientamenti sessuali non ho parlato con i miei amici, con le persone che mi stavano più vicine».
Le sue scelte si rivestono, di solito, di un senso di ironia.
«Direi più di epicureismo. Gratta gratta, sono una persona che non è mai diventata padre. Mi considero più giovane di quanto in realtà sia e, a volte, mi comporto come un enfant gâté che in un signore di quasi ottant’anni suona alquanto ridicolo».
Ha mai desiderato un figlio?
«Certe volte, soprattutto in passato. Ma ora non più. E poi credo che uno debba vivere bene l’esperienza di figlio prima di averne di propri. E io non l’ho vissuta nel migliore dei modi. Ho sognato una sola volta che sciavo dietro mio padre; ma io mio padre non l’ho mai visto. Quando è morto avevo un anno e mezzo. Però posso dirle che ho un sacco di “figli di puttana”, o meglio, di giovani amici di cui sono diventato una specie di padre. Vengono spesso a mangiare qui, attorno a questa tavola. Mi spolpano».
Le piace farsi spolpare?
«Un po’ sì. Ho sempre pensato che sia più facile dire sì che dire no. Non mi so difendere abbastanza dai legami che si incrostano e che, come dice un’amica, diventano delle spese fisse».
Che rapporto ha con il denaro?
«Per molti anni non mi sono amministrato da me. Prendevo lo stipendio e lo consegnavo a mia madre. Era lei a darmi i soldi. Non ho mai fatto preventivi sul denaro. Finché ce ne è bene, poi si vedrà».
E i suoi desideri?
«I miei desideri cosa?»
Come convive con il loro calo?
«Resta pur sempre la nostalgia del desiderio»
Accennava alla malattia di un suo compagno. Poi si è aggiunta quella di un altro amico. Cosa è stato per lei il dolore di vedere morire due figure così care?
«A volte mi rimprovero di essere diventato un po’ cinico. Esperto in un genere letterario un po’ particolare: i necrologi. Ma in certi momenti mi viene il magone. L’altra settimana viaggiavo in macchina con un giovane amico che aveva messo una canzonetta in cui c’entrava Fidel Castro. Improvvisamente mi sono messo a piangere. Non mi era mai accaduto. Almeno non così platealmente. E ho pensato: sto invecchiando. Poi mi è tornato alla mente che in quel famoso convegno su Nietzsche, quando fu il mio turno di parlare, Gabriel Marcel si mise a piangere. E io pensai: ma guarda che discorso commovente che sto facendo. Un collega guardandomi disse: non ti preoccupare, da quando è vecchio lui piange sempre se ascolta qualcuno al microfono. Un’amica psicologa dice che vivo di sensi di colpa. Li ho ormai così estesi che se di notte prendo un taxi mi scuso con il tassista se il percorso è breve».
Ha mi fatto analisi?
«No. Tanto tempo fa, la moglie di Pareyson voleva che entrassi in analisi. Diceva: si sbrighi, che poi diventa vecchio».
C'è un'età giusta?
«Come per tutte le cose, quando è tardi è tardi. Ma non sono un campione degli addii».
Che ne è del giovane brillante, il primo della classe, che stupiva i professori?
«È una zona del passato che ogni tanto mi piace rievocare. C’è sempre un tempo in cui il pugile ha danzato sul ring».
Dà l’impressione che non gliene freghi più molto della filosofia.
«Da quando ho scoperto la prassi sono un po’ distante dalla filosofia accademica. Vogliamo ancora dare un contributo a una nuova lettura di Heidegger? Boh. La verità è che non mi sento più a mio agio nei convegni troppo tecnici. Sto rileggendo Spinoza e in particolare il Trattato teologico politico. Aveva intuito e anticipato che la vera religiosità è postmoderna. La religione non ha niente a che fare con certe asserzioni, tipo Dio c’è o Gesù è resuscitato. Cosa ne sappiamo? Ma è la caritas verso gli altri il solo modo di vivere l’amor dei intellettuale. Finirò col fare il predicatore in qualche comunità religiosa, magari concedendomi qualche libertà nei costumi».