Il teorico del "pensiero debole" conversa con Santino Cundari su Calabria Ora del 28 luglio 2013. Il placet sulla formula anti-festivaliera della Scuola di Roccella, il Sud, la sua Calabria e l'importanza degli intellettuali. Questi alcuni dei temi discussi davanti a un drink in piazza
di SANTINO CUNDARI
Si avviano
ormai verso la conclusione le quattro giornate di studio organizzate dalla “Scuola
di Alta Formazione Filosofica” di Roccella Jonica. Tante e varie sono state le
declinazioni che il tema di questa edizione, quello dei “beni comuni”, ha
assunto nel corso della fortunata iniziativa. Partendo dall’assunto che tra i
“beni” il “pensiero” sia uno dei più preziosi, abbiamo posto alcune domande ad
un “professionista” di questo ramo del sapere: il filosofo Gianni Vattimo. La
“sua Calabria”, le dinamiche politiche del Sud Italia e i “beni” di una
collettività che voglia davvero dirsi tale, i temi maggiormente dibattuti dal
teorico del «pensiero debole».
Negli ultimi tempi lei si è “tirato fuori” dagli incontri “filosofici e
accademici” dichiarandolo anche pubblicamente. La prima domanda che le
rivolgiamo è proprio questa: perché ha detto “sì” alla “Scuola di Alta
Formazione Filosofica” di Roccella?
«Incontri come questo mi
stimolano molto perché nel delirio generale dei festival culturali cominciavo a
sentirmi a disagio. In alcune situazioni mi aspettavo quasi di essere
interrotto: immaginavo che, durante una relazione su Heidegger, mi si venisse
presentato un intermezzo musicale, magari un balletto».
Una
deriva estremamente “pop” come quella di Modena che invita Fabio Volo a parlare
di filosofia?
«Esatto, mi riferisco a roba del
genere. Mentre devo ammettere che iniziative come questa mi danno un po’ di
fiducia. Ho sentito relazionare giovani molto interessanti e preparati. Alcune
cose me le sono anche annotate. Questa è una buona via e spero che negli anni
si mantenga. Sono sempre stato interessato ai tentativi di portare la filosofia
fuori dalle “accademie” ma certi esiti sono stati davvero imbarazzanti. Questa
operazione in Calabria è riuscita perché oltre agli specialisti del settore ci
siamo trovati a discutere con i villeggianti, la gente del luogo e persone molto
curiose. Questo si è rivelato un bel modo perché si è evitato di snaturare il
discorso filosofico e lo si è comunque reso alla portata di tutti».
C’è
qualcosa che in particolare di più l’ha colpita?
«Le domande che mi hanno rivolto
le maestre della scuola elementare. Mi hanno provocato molto. Volevano capire
come spiegare il valore del discorso culturale ai bambini. Giustamente si
chiedono come la filosofia possa divenire un contatto educativo privilegiato
per il metodo d’insegnamento. Per loro la filosofia non è una materia
curriculare ma si può attingere dai suoi metodi anche per insegnare altro.
Questo, oggi, è un discorso che si è completamente annichilito. Invece andrebbe
seriamente ripreso. È come la crisi del clero: se anche i preti iniziano a non
crederci più noi che facciamo? Bisognerebbe investire tanto sulla formazione
degli insegnanti. Loro sono il tessuto intellettuale del Paese, la crescita e
la ripresa dalla crisi dovrebbe passare prima di tutto dal loro lavoro».
Torniamo
al suo legame con la Calabria: di recente è stato scritto un saggio su questo
(pubblicato in “Storia del pensiero filosofico in Calabria: da Pitagora ai
giorni nostri” per Rubbettino e curato da Mario Alcaro ndr), lei viene tirato in mezzo solo per le sue origini o anche per
una vicinanza di approccio culturale e filosofico?
«Ho vissuto alcuni anni a
Cetraro, il paese di origine di mio padre, e una volta trasferitomi al Nord
sono sempre stato etichettato come “terrone”. Questo è un dato di fatto. Ricordo
ancora quando arrivavano i pacchi dalla Calabria al Piemonte e ne ero sempre
entusiasta. Questo fa parte della mia cultura ed è una qualcosa che non ho mai
rinnegato. Non ne ho mai avuto motivo anche se da ragazzino venivo picchiato
perché “terrone”. Sul piano filosofico per un po’ di tempo ho coltivato idee
vicine a quelle di Esposito. In sintesi, il nostro Paese è diventato tutto un
Sud Italia. Rispondiamo ad un Nord europeo. Queste sono dinamiche che dalle
nostre parti sono sempre esistite e che oggi si ripresentano su una più vasta
scala territoriale e culturale. Questa è una cosa su cui il Nord Italia, nel
suo convinto avanguardismo, dovrebbe riflettere e vivere in maniera più
critica».
La
questione è dunque anche politica. Secondo lei quali sono i limiti delle
politiche del Sud e della Calabria in particolare?
«Una politica che non investe su
l’intelligentia del proprio
territorio è una politica fallimentare. Riprenderei qui il discorso proposto in
precedenza sul mancato riconoscimento del ruolo degli insegnanti in una società
che voglia dirsi tale. Aggiungerei anche i tanti giovani che fanno cultura e
che, fra mille difficoltà, rimangono ancora qui nel tentativo di cambiare
qualcosa. Trovo una politica assente, importatrice e mai esportatrice della
propria intelligentia, che non
investe sulle potenzialità che già possiede».
In questi giorni si è parlato di
“beni comuni”. Secondo lei da queste parti c’è un bene più urgente degli altri?
«La
legalità. Ma questo, a mio parere, è sempre stato un problema nazionale e mai
un’esclusività del Sud. Per questo, in generale, si dovrebbe investire su
cultura e formazione, fondare magari corporazioni fatte di intellettuali e impegnate
per la collettività».