sabato 11 dicembre 2010

domande fondamentali 2


Che cos’è la politica?
È interessante che Hanna Arendt, per rispondere alla domanda, chiami subito in causa la filosofia con lo scopo di definire, per contrasto, le differenze sostanziali tra queste due sfere della vita umana. In totale opposizione alla politica, la filosofia si origina intorno all’idea dell’Uomo: i suoi concetti e i suoi enunciati sarebbero validi anche se esistesse un solo uomo o solo uomini identici, la politica si occupa, invece, della convivenza dei diversi ed esiste solo “al di fuori dell’Uomo” . Oltre a una certa estraneità della filosofia alla profondità su cui poggia la politica, bisogna rilevare un aspetto ben evidenziato dall’intervento del direttore della Scuola, Giuseppe Cantarano, sul concetto di antipolitica: lo stato attuale della politica può essere definito come un costante andare verso la sua stessa fine, una sorta di entelechia che ci permette di immaginare una sua definitiva scomparsa. Ciò è dovuto alla natura intrinseca della politica moderna che converte la convivenza tra diversi nella riduzione a unità della differenza, unità pacificata e libera di non occuparsi più dei problemi che la convivenza pone: la politica serve al singolo, per pensare ai suoi scopi e non essere molestato dalla politica. Il fine della politica non è più l’organizzazione della convivenza ai fini della libertà di tutti coloro che appartengono al suo spazio, ma l’organizzazione della “vivenza”, il prendersi cura della vita nel senso più ampio del termine, riferito cioè a una moltitudine quanto più grande possibile di individui, la vita dei molti, allo sviluppo dell’esistenza del singolo, ciò che Foucault, citato dalla Dominijanni, chiama “l’allevamento dei viventi”, e al mantenere in vita la vita stessa, la biopolitica in tutti i suoi significati migliori e deteriori.
Come ha fatto notare l’originale intervento di Mario Alcaro, i prodromi di questa tendenza del pensiero politico moderno si possono ritrovare in Tommaso Campanella, quando ne La Città del Sole descrive tra i compiti del governo del Città una sorta di rudimentale forma di eugenetica. Sulla biopolitica si è soffermata a lungo Ida Dominijanni mettendo in luce piuttosto i pericoli che essa comporta: come lo svuotamento dei processi di soggettivazione e delle forme di relazione tra pari. Anche l’intervento di Pietro Barcellona, che partiva da presupposti diversi e che prendeva in considerazione l’aspirazione legittima del singolo alla felicità, giungeva infine a una riflessione sulle possibilità di essere soggetti oggi, e sulle conseguenze politiche di questa possibilità.
Gli argomenti messi in gioco a Roccella rendono conto del problema di cui accennavamo all’inizio, quello del rapporto - a questo punto bisogna dirlo - ostile, tra politica e filosofia, che dipende da una certa incongruenza logica (l’Uomo/ gli uomini), da un disinteresse sintomatico della filosofia a pensare con profondità alla politica e a una tendenza naturale della politica moderna che si converte in biopotere a antipolitica.
Non è una coincidenza che la Scuola abbia avuto inizio con il richiamo a Tommaso Campanella. Il filosofo calabrese, è giustamente citato nella lezione inaugurale non tanto, o non solo, come espressione del pensiero in relazione al territorio; ciò su cui Alcaro dimostra di fondare le sue argomentazioni va ben oltre una certa affinità tra luoghi del pensiero, il suo intervento prosegue infatti con una lucida analisi delle potenzialità positive intrinseche al paradigma biopolitico, capaci di svilupparsi solo accanto a una nuova consapevolezza del mondo, che la filosofia può contribuire a far rinascere. D’altronde la “costruzione” del mondo è ciò che per eccellenza caratterizza l’attività politica: il nesso latente e indissolubile spiega il perché di Campanella. Le rocambolesche vicende che hanno caratterizzato la sua vita, testimoniano come egli sia stato un filosofo che si è confrontato realmente con la situazione politica del suo tempo. Con la sua Città ideale descrive un modello di convivenza che rimanda alla Politeia di Platone e ci trasporta esattamente lì dove le ostilità sono nate.
Platone può essere considerato in questo senso il padre metaforico del Campanella (bio-)politico: uomo della città, cittadino ateniese totalmente coinvolto nella cosa pubblica, è in effetti colui che ha segnato le sorti del rapporto ultimo su cui ancora ci interroghiamo. All’origine la condanna a morte di Socrate, per cui la filosofia sta ancora pagando: il Discepolo, ritiratosi dalla vita pubblica, fonda l’Accademia. Sebbene egli continui a nutrire la segreta speranza che questo possa servire a cambiare la polis, e sebbene la filosofia continui lì a operare in una sfera pubblica, il suo gesto estromette inequivocabilmente la politica. Se i giusti discorsi di Socrate non hanno convinto l’Agorà ateniese, la polis non è il luogo che può accoglierli. La filosofia nell’Accademia assume dunque la sfera della parola, si contrappone radicalmente a quella dell’azione e sostituisce alla riflessione sugli uomini quella sull’Uomo; diviene uno spazio pubblico separato dallo spazio politico, essa non si imbatte in tutti i problemi della convivenza in cui è necessario agire insieme agli altri o per gli altri.
“La posizione socratica: l’unica pratica filosofica che si sia mai svolta in pubblico. Di contro l’Accademia” .
Il problema consiste dunque nella possibilità di recuperare o reinventare questa forma peculiare del fare filosofia: senza retorica, senza ripetere l’errore di creare modelli di buona condotta e accettando che coloro che, per comodità di discorso, sono stati definiti proditoriamente “non-filosofi” possano rubare le parole di bocca alla filosofia e a coloro che definiamo, non meno proditoriamente, “filosofi”. Una tale operazione deve per forza mirare a imporre nuovi linguaggi e nuovi concetti. Non si tratta di riaffermare il primato dell’azione sulla teoria ma di essere in grado di riposizionare le idee che da sempre nella nostra storia appartengono al politico.
am
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domande fondamentali 1


La prima edizione della Scuola Estiva di Alta Formazione in Filosofi ha offerto l’occasione per riflettere sulle forme della filosofia contemporanea, soprattutto riguardo a una dimensione molto particolare del pensiero che è quella della discussione pubblica. O meglio, plurale: infatti, il terreno che ha sorretto e definito, definendosi a sua volta, il cammino di una riflessione che aspira a dirsi “condivisa” è l’interagire perpetuo e magmatico tra filosofia e politica. L’argomento, come si vede, investe un grande campo d’azione che però può essere meglio delimitato se si prende in considerazione la prospettiva offertaci da Hanna Arendt, in un saggio fortemente significativo dei principi che sono emersi anche durante l’evento roccellese.
Parliamo dell’Introduzione alla politica (1), che la filosofa ebreo-tedesca inizia a scrivere nel 1956 su suggerimento dell’editore Klaus Piper . L’intento con cui si appresta a redigerla è di “esporre quello che realmente è la politica e i presupposti fondamentali dell’esistenza umana con i quali il politico ha a che fare” . Il libro non venne mai portato a termine, ma i frammenti che rimangono sono testimonianza di una volontà comunicativa che liberasse la riflessione filosofica dalle maglie della ragione accademica; un ritorno all’essenziale del linguaggio filosofico che si chiede semplicemente che cosa sono “le cose” della nostra esperienza, la Arendt tenta di rispondervi, con una chiarezza paragonabile solo a quella di una dimostrazione logica.
Il primo frammento si apre con la domanda “che cos’è la politica?” cui segue cristallina: “La politica si fonda sul dato di fatto della pluralità degli uomini” . La risposta coglie perfettamente la prospettiva che ha caratterizzato la prima edizione della Scuola e cioè la necessità, filosofica, di muoversi in una dimensione plurale. Con questo non s’intende solo il fatto che gli incontri abbiano avuto un forma seminariale che ha coinvolto in maniera attiva i partecipanti, quanto la differenza in cui è venuto a trovarsi questo gruppo di persone che parlava di filosofia. Gli oltre sessanta iscritti avevano la caratteristica particolare di essere per la maggior parte dei “non filosofi”, cittadine e cittadini di varie età (dai 16 agli 80 anni) e di diversissima estrazione sociale. Questa differenza è emersa soprattutto durante le discussioni che seguivano le relazioni dei docenti: non si trattava di semplici richieste di approfondimento o d’interventi specialistici, bensì di un’emersione continua, nelle forme più varie, di concetti fondamentali alla filosofia e alla vita. La diversità dei punti di vista sulle questioni e i problemi messi in gioco ha tessuto una rete sui cui fili danzano ancora i pensieri arendtiani.
Prima di tornarvi, è necessaria però una precisazione, soprattutto alla luce di una rinascita di interesse verso la filosofia che si è registrata in questi ultimi anni e si è manifestata con l’apparire di numerosi festival filosofici. Sebbene la tendenza sia da considerarsi positiva, l’idea da cui si origina il progetto di cui ci occupiamo non si pone in questo solco. Il motivo è dovuto al carattere di “evento” spesso assunta da questa forma di filosofia fatta nelle piazze, che rischia di trasformare il bisogno di tenere un discorso pubblico in un’occasione di intrattenimento del pubblico, con tutte le ambiguità che questo termine comporta. Quello di Roccella è stato invece il tentativo creare nuove pratiche di relazione e di confronto a partire da un problema.

am

(1) I frammenti che Hanna Arendt aveva redatto per il libro sono editi in Italia nella pubblicazione Che cos’è la politica, Ed. di Comunità, Milano, 2001.
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venerdì 10 dicembre 2010


Noi siAMo qUi

(in foto: variante -in-finita- della ss 106, quella che dovrebbe permettere una migliore vivibilità agli abitanti di Roccella Jonica e anche a tutti i - si spera - numerosi frequentatori della Scuola di filosofia)
(però -a dire la verità- Roccella è già molto bella)
Tutto scorre, tranne la strada..

Che cosa fa camminare la strada?

la ricerca

"chi non spera l'insperabile non lo troverà, poichè è chiuso alla ricerca, a esso non porta nessuna strada" Eraclito l'Oscuro






Ah! Poor Alice... tutta sola su quel fazzoletto di cammino, eppure, la solitudine non le fa capire quanto è stata fortunata: quel cane spazzino è il doppio surreale del filosofo, e le insegna che la strada è sempre da fare, ma lei è ancora troppo confusa per capire!
A proposito di strada, mi viene in mente la frase di Wittegenstein
"un problema filosofico ha la forma: non mi ci raccapezzo!"
la mia passione per le etimologie mi ha spinto ha cercare la derivazione dell'insolito verbo scelto dal filosofo del linguaggio e mi ha fatto scoprire che quel termine ha molto a che fare con il sentiero che stiamo percorrendo. Raccapezzare significa trovare e raccogliere i capi (cabezas) di un groviglio; ma deriva da accappezzare "sbozzar pietre" che è anche il lavoro che fanno gli operai delle strade antiche. i raccapezzatori sono coloro che tagliano e spaccano i pezzi di granito affinchè la strada che devono lastricare sia levigata e compatta.

il loro lavoro consiste, insomma, nel rifinire i pezzi per l'incastro.
A ben vedere, anche la mente umana funziona così, prende le pietre del pensiero e le rifila in modo da farle funzionare nel persorso che vuole pavimentare affinchè anche altri possano percorrerlo e andare un poco più in là a cercare nuove strade.
Ma prima delle pietre, che sono le parole, bisogna segnare da soli con i propri passi un sentiero

solo et pensoso i più deserti campi
vo' mesurando a passi larghi e lenti

e poi lavorare affinchè sia permesso anche agli altri di percorrerlo.
Nonostante l'accapezzamento, in un problema filosofico non ci si raccapezza, le parole spesso non bastano e sembrano tutte sbagliate, ma bisogna continuare a lavorare, spaccando pietre e cercando i fili del discorso, pur sapendo, come nel caso della SS106, che sarà impossibile trovarli. am

Tutto ciò che distingue l’uomo dall’animale dipende da questa capacità di sminuire le metafore intuitive in schemi, cioè di risolvere un’immagine in un concetto […]. Mentre ogni metafora intuitiva è individuale e risulta senza pari sapendo perciò sempre sfuggire a ogni registrazione, la grande costruzione dei concetti mostra invece la rigida regolarità di un colombario romano e manifesta nella logica quel rigore e quella freddezza che sono propri della matematica. Chi è ispirato da questa freddezza, difficilmente crederà che il concetto – osseo come un dado, spostabile e munito di otto vertici come questo – sussista unicamente come il residuo di una metafora. F. Nietzsche La Filosofia nell’epoca tragica dei Greci e scritti 1870-1873, Adelphi, Milano, 1973. pp. 233-235.

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