giovedì 30 maggio 2013

L'intellettuale e la ricostruzione

All’ora di pranzo, durante il consueto spazio di conversazione gestito da Corrado Augias su Rai 3 (Le storie – Diario di un italiano), il rettore dell’Università di Bologna, Ivano Dionigi, risponde così a una liceale che gli chiede del ruolo dell’intellettuale oggi: «È chiamato alla ricostruzione». La puntata è dedicata a un libello di Seneca sull’esperienza del tempo, intitolato La brevità della vita (a cura di Carlo Carena, Torino, Einaudi 2013, pp. XVIII-102). Dionigi, fine latinista, ha chiarito che non si tratta dell’esplosione di un pessimismo cosmico, bensì dell’elogio della finitezza umana come imprescindibile condizione per una condotta densa, vissuta all’insegna delle nostre attitudini e predisposizioni storico-naturali, innanzitutto linguistiche e affettive. Insomma, una vita breve sì, ma intensa, comunque ricca di chance e durevole.
Nel corso del dibattito, figura di riferimento è lo stesso Seneca, esponente dello stoicismo della Roma imperiale, tutore dell’indomito Nerone, esempio d’intellettuale impegnato, abituato tanto alla virtù quanto al vizio. L’autore latino serve però solo da caso-scuola destinato, secondo la versione del solito Dionigi, a promuovere una tipologia di intellettuali che, tenendo conto delle attuali contraddizioni economiche e culturali (secondo il rettore la crisi è prima culturale e poi economica: forse sarebbe più ragionevole il contrario, alla luce della lezione materialista che assegna alla cose “fini e spirituali” una radice tutta “rozza e materiale”), possano agire affinché «costruiscano su macerie» (così il Guccini al veleno). Dice Dionigi che l’intellettuale non è un buon notaio, non deve ridursi a registrare un stato di cose, ma è chiamato a pensare a «come dovrebbe essere» e non a «come è». In altre parole: l’intellettuale, perlopiù il filosofo, ma pure lo scienziato e il letterato e perfino certuni giornalisti, fa bene quando interroga l’epoca per immaginare un’alternativa e, in coerenza col suo mandato filosofico o scientifico o letterario e così via, tenta di giustificare la sua ipotesi. Oggi, possiamo essere d’accordo con Dionigi, la posta in gioco è l’idea della “ricostruzione” nella misura in cui l’epoca esibisce un cortocircuito sistematico, che si è cronicizzato e che la sta mortificando. Da qui, la domanda è: a che pensare per ricostruire? Quello di “comune” pare accreditarsi fra i concetti più promettenti per una filosofia del presente che voglia guardare con disincanto ai limiti del capitale, proprio nel momento in cui la produzione mobilita quelle doti comuni alla specie che sono il linguaggio e la propensione ai rapporti sociali (è il lavoro cognitivo, ormai sotto gli occhi di tutti, anche degli orbi). In più, restando nell’ambito di ciò che concerne il ruolo dell’intellettuale, e più in generale dell’«etica delle competenze» (ancora Dionigi) e delle conoscenze, non è fuori luogo rilanciare qui il CALL FOR SPEECH sul “sapere come bene comune”, relativo al seminario dal titolo Del comune sapere che si svolgerà a Roccella Jonica il 25 luglio prossimo, all’interno del programma della IV Scuola estiva “Giorgio Colli”. Il seminario, manco a dirlo, sarà coordinato da Ugo Mattei, autore di Beni comuni. Un manifesto (Roma-Bari, Laterza 2011, pp. XIX-116).

Angelo Nizza

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